Quando hai detto no

Quando hai detto no

Un laboratorio che mi piacerebbe fare

Viviamo in un tempo strano.

L’omologazione e la dispersione nella folla sembrano le regole che governano il nostro apparente pacifico vivere insieme, anche se poi la diversità, la particolarità di ciascuno, l’essere fuori dal comune sembrano essere il nuovo trend da seguire per essere creativi, up, di successo, non dimenticandosi poi di una dimensione privata che mai come ora sembra essere diventata il reale deposito dove la dimensione del senso del vivere si manifesta e si capitalizza diventando luogo di rifugio e di accoglienza dalle fatiche che l’omologazione e l’eccentricità richiedono.

Contraddizioni in termini.

Una frizione che si riverbera nelle vite di ciascuno.

Un leggero attrito che si avverte nel momento in cui si dice no, si rifiuta una proposta, una situazione, una tendenza, una collocazione, un pensiero, una definizione, uno sguardo altro su di noi o per noi. Un momento cruciale nella crescita di ciascuno e non solo del bambino che dice il suo primo no, ancora piccolo, alle persone da cui dipende completamente la sua vita. Filosofi hanno dibattuto il tema dell’alternanza tra l’identificazione e l’individuazione, tra l’essere come, insieme agli altri, e l’essere diversi, unici a se stessi.

Un disagio che, nel momento in cui si dice no e in cui ci si differenzia e ci si discosta, mette in luce non solo la nostra differenza ma anche quella degli altri e che ritorna come un boomerang, spesso dritto nello stomaco.

L’eterno rimbalzo tra chi sono io e chi sei tu.

Si cercano nuove vie prima semplicemente inesplorate, si abbandonano luoghi di privilegio e tempi di ristoro per definirsi altrove, aderenti alla propria coerenza o forse solo sperando di esserlo.

Parte un nuovo viaggio e una nuova ricerca.

Un laboratorio che mi piacerebbe fare. Quando hai detto no.

 




La documentazione biografica tra insegnanti

La documentazione biografica tra insegnanti

La documentazione biografica:
una pratica di scrittura innovativa per raccontarsi e raccontare il proprio lavoro.

Di che cosa si tratta?
Quando pensiamo alle modalità di realizzazione di una documentazione ci immaginiamo in genere una persona o un gruppo di persone che insieme cercano di raccogliere, organizzare e presentare dei materiali e dei ricordi relativi a un’esperienza realizzata. Le modalità possono essere differenti, come spesso è stato raccontato e illustrato nei libri che si riferiscono a tale ambito.

Possiamo pensare, ad esempio, alla documentazione prima di agire l’attività (a priori), durante la realizzazione dell’esperienza stessa (in itinere) o al termine (a posteriori): cambiano gli strumenti, le modalità e gli esiti (Ravecca, 2013, p. 40). Possiamo pensare alla documentazione come a una ricostruzione condivisa. In questo modo di documentare la narrazione soggettiva dell’esperienza stessa è presente ma rimane collaterale ad altri aspetti che sembrano assumere maggiore visibilità e struttura: la fotografia o il video che ritraggono momenti dell’esperienza, le parole dei bambini che hanno partecipato all’attività, gli oggetti prodotti, esito dell’attività, o altro ancora.

Il punto di vista soggettivo dell’adulto o del gruppo che ha pensato, condotto e realizzato l’esperienza rimane sullo sfondo, come un filo, un racconto a volte autobiografico o cronicistico, altre volte come un pensiero che si intuisce sottintendere l’esperienza ma che non emerge sempre chiaramente.
La documentazione viene narrata autobiograficamente dall’insegnante, dall’educatore o dal gruppo ma la narrazione sfugge a un’elaborazione dedicata più specifica, a un’osservazione più attenta e a una riflessione che può divenire base per la costruzione di saperi aggiuntivi.

La documentazione biografica nasce proprio per mettere al centro dell’esperienza di documentazione la narrazione soggettiva dell’esperienza stessa a opera dell’insegnante o dell’educatore che ha condotto l’attività.
Parliamo di documentazione biografica e non di documentazione autobiografica perché il racconto dell’esperienza
viene raccolto e rielaborato da un altro insegnante o educatore che definisce le caratteristiche della documentazione che può essere un testo, un oggetto, un prodotto multimediale o altro. Se il contesto lo consente, il narratore e il raccoglitore si scambiano i ruoli e in un reciproco gioco di sguardi e di racconti si generano tra gli insegnanti condivisione di saperi, di emozioni, di esperienze.

L’agire in prima persona la narrazione di esperienze e l’essere reciprocamente e contemporaneamente documentaristi di un altro insegnante generano nel gruppo e nel collegio docenti un’atmosfera particolare che apre il contesto ad approfondimenti e scoperte prima non così facilmente avvicinabili. La documentazione biografica diviene una pratica educativa e formativa oltre che documentativa quando questi esiti divengono a loro volta base di riflessione e di confronto.

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La documentazione biografica è una pratica che richiede tempo e dedizione, va appresa in contesti formativi dedicati ove, attraverso la partecipazione a laboratori biografici specifici, viene praticata con cautela, delicatezza e gradualità prima di poter essere esercitata nell’ambito di riferimento di ciascuno.

Attraversare prima le esperienze che si pensa di proporre ad altri rimane uno dei fondamentali presupposti deontologici di chi si muove nei territori del recupero biografico.

 

Per saperne di più
ecco la versione integrale dell’articolo pubblicato sulla Rivista “Bambini”, ed. junior- Spaggiari, Parma, marzo 2016.

Narrazioni d’opera tra educatori e insegnanti




Il Tai chi chuan a Torino: un esempio di mediazione culturale

Il Tai chi chuan a Torino: un esempio di mediazione culturale.

Corsi e ricorsi della storia e della memoria.
12 marzo 1996.
La mia Tesi di Laurea sul Tai chi chuan

La prima Tesi di ricerca accademica sulla pratica del Tai chi chuan in Italia.
Dalle pagine preparate allora per un Concorso, poi vinto, un breve estratto:

 

                                                                                                                    Possa tu vivere in tempi interessanti
                                                                                                                                                                 antico motto cinese

La società che abitiamo e che viviamo presenta, sul finire di questo secolo, elementi di grande interesse e curiosità per tutti coloro, e non solo, che si interessano all’uomo e al suo rapporto con il “mondo” e nel “mondo”. I processi di diversificazione, moltiplicazione, diffusione dei fenomeni e delle “culture” rendono più facilmente manifestabili, raccoglibili, studiabili i nuovi “percorsi” che coinvolgono il soggetto nei suoi processi di socializzazione primaria e secondaria, di identificazione e di individuazione, di costruzione e strutturazione permanente della propria identità.

Il tentativo di porre attenzione alle nuove dinamiche culturali, frutto di un multiculturalismo sempre più variegato e multiforme, unito ad un affetto profondo per la Cina e il suo universo culturale, mi ha portato a rivolgere la mia ricerca al Tai chi chuan.

Il Tai chi chuan è una disciplina di origine cinese che abbina in sè movimenti lenti ed armoniosi tramandatisi nel tempo dall’antichità ad alcuni principi della filosofia taoista e della medicina cinese. Alcuni lo considerano di meditazione in movimento che collega il microcosmo individuale al macrocosmo universale attraverso l’esecuzione di movimenti morbidi di straordinaria bellezza formale. C’è qualcosa di indefinibile nella pratica di questa disciplina che sfugge a qualsiasi tentativo di descrizione.

La mediazione culturale, secondo questa ricerca, è un processo intrasoggettivo che si attiva quando l’attore sociale entra in contatto con un universo simbolico e culturale diverso dal proprio. La mediazione diventa espressione della permeabilità delle nostre società ed indica, se affrontata con modestia culturale, la interpenetrazione possibile dei differenti universi culturali dell’uomo a fronte di una cultura universale dell’uomo.

La specificità della ricerca ha reso necessario l’utilizzo di strumenti di indagine complessi (questionari, interviste semi-strutturate, schede di rilevazione dati) idonei alla raccolta dei dati necessari alla costituzione di una prima banca dati inedita sul Tai chi chuan.

Dai risultati della ricerca risulta piuttosto chiaramente che il processo di mediazione culturale in atto non riguarda solamente ed esclusivamente la cultura cinese e la cultura autoctona, di matrice occidentale. Sembra emergere la presenza di un terzo polo culturale che assume sempre più valore ed importanza. Un universo culturale che trascende le culture particolari e che si colloca in una dimensione “altra”. 

Riemerge forte la centralità dell’uomo e della sua ricchezza particolare, singolare, unica. Rinasce un nuovo umanesimo. L’Umanesimo di fine millennio.

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I tappeti raccontano

I tappeti raccontano la storia.

Così è al MAO, il bellissimo Museo di Arti Orientali di Torino.

Direttamente dal sito del Museo la descrizione dell’affascinante allestimento che riesce a sospendere il tempo e lo spazio e a portarci altrove.

IL DRAGO E IL FIORE D’ORO.

Potere e Magia nei Tappeti della Cina Imperiale

da 5 Dicembre 2015 a 28 Marzo 2016

Il MAO Museo d’Arte Orientale, in collaborazione con la Fondazione Museo Asia, propone una grande mostra che presenta per la prima volta in assoluto opere di arte tessile di rara bellezza e impatto visivo: 36 tappeti di manifattura cinese realizzati tra il 18° e il 19° secolo nei laboratori imperiali per adornare le immense sale e i podi dei troni dei palazzi dell’Imperatore nella Città Proibita di Pechino.

Le preziosissime opere esposte provengono da varie collezioni internazionali e rappresentano una selezione significativa di tutti i tappeti imperiali di seta e metallo della dinastia Qing (1644-1911) noti a livello mondiale, che superano di poco i trecento esemplari.

Il tappeto – frutto di una raffinatissima arte che vedeva gli artigiani/artisti dei laboratori imperiali combinare seta, oro, argento e rame –  esprimeva il  potere imperiale e la concezione del mondo a esso sottostante attraverso la componente estetica e decorativa. Con la loro straordinaria lavorazione, con la luce che sembra scaturire dal fondo dei tappeti, con la complessa decorazione di esseri favolosi e animali fantastici, queste opere rappresentano – per chi sappia guardare – una finestra spalancata sul mondo del potere divino dell’Imperatore e sulla Città Proibita, uno sguardo sui simboli e sui principi del taoismo, la dottrina filosofico/religiosa che ha permeato la cultura e la società cinese.

A partire dal titolo, la mostra dischiude al visitatore un mondo invisibile e complesso nel quale il Drago rappresenta l’Imperatore, il Figlio del Cielo, il potere, mentre il Fiore d’Oro dai mille petali è il simbolo dell’energia divina e del’universo. Questi due simboli assieme ci raccontano dell’ordine del cosmo e dell’immortalità.

Il fascino dell’universo simbolico scritto nella trama dei tappeti trova rispondenza in musica e immagini e la mostra si fa polisensoriale: la partitura originale ‘The Dragon and the Golden Flower’ per quartetto d’archi ed elettronica scritta da Nina Danon e la videoinstallazione in cinque sezioni ‘Mirrors’ di Andreas Nold accompagnano e avvolgono il visitatore durante percorso di visita. Ritmi e movimenti ispirati al simbolismo e alla storia delle opere in mostra vengono usati per creare un linguaggio in cui i cinque sensi si fondono dando vita a paesaggi sonori e armonie visive.

Oltre ai grandi tappeti, cuore della mostra, il MAO espone due vesti anch’esse risalenti alla dinastia Qing provenienti da una collezione privata e una selezione di opere della collezione permanente del Museo.

Per tutta la durata della mostra, un ricco calendario di eventi consentirà al pubblico di immergersi totalmente nell’atmosfera della Cina antica, apprezzandone dal vivo la storia, l’arte e le tradizioni. La rassegna prevede degli incontri con gli studiosi che hanno contribuito alla realizzazione della mostra, conferenze in collaborazione con l’Istituto Confucio di Torino, workshop, spettacoli, attività per famiglie, visite guidate alla mostra, degustazioni di tè e festeggiamenti in concomitanza il Capodanno cinese.




Perché documentare?

Cosa significa documentare e perché è così importante non dimenticarsi di documentare.

Quando tutti pensano di sapere il significato di una parola, questa smette di respirare, di vivere. Se penso di sapere già cosa sto facendo, smetto di interrogarmi, smetto di avere cura delle parole

Laura Formenti

Documentare: lavorare con le parole per le parole

È interessante, quando ci si avvicina a una parola nota e diffusa, come per esempio anche la parola documentazione, interrogarsi sul suo significato essenziale, sul messaggio che si pensa possa trasmettere universalmente e oggettivamente, cercando di verificarne la comprensione.

La ricerca sull’ermeneutica delle parole diventa una palestra interessante per scoprire dimensioni soggettive di senso e percezioni che si rivelano non condivise, narrate con questa o quella parola. Durante i corsi sulle tecniche di documentazione, tenuti nel tempo, il percorso inizia proprio dalla ricerca di un significato condiviso del termine documentazione, per comprendere meglio ciò che ognuno ritenga ne sia il senso.

Un patto di comprensione reciproca che si rivela utile durante il percorso da attraversare insieme, un accordo per definire il punto di partenza e per accertarsi del punto d’approdo. Quindi interrogare le parole insieme per “sperimentare quel loro essere incarnate dentro le nostre azioni, gesti, sensazioni, sentimenti” (Formenti, 2009), per riscoprirne il forte valore fondativo del nostro vivere insieme, per affidare loro un significato condiviso.

In quel contesto specifico, nel qui e ora, sia che si tratti di un percorso formativo, di un collegio docenti, di un incontro con un collega o una collega, di una riunione con le famiglie, di una stesura didattica, di un allestimento pubblico.

Interrogarsi sul che cosa si intenda per documentazione è il filo conduttore dell’articolo pubblicato sulla rivista Bambini (ed. Spaggiari) nel numero di settembre 2015 e ora disponibile per tutti on line al seguente link:

Perché documentare?